NINÌ – Quarta puntata del racconto

Fuori era un giorno di nebbia e vento, i vestiti restavano attaccati alla pelle spiegazzati dal violento bisticciare dell’aria. Una sciarpa, impigliata per soli due fili di lana a un ramo di quercia, dimenava la coda pronta a un volo breve e rovinoso. Ninì aveva un gelone al secondo dito della mano destra, si tolse i guanti e, rientrando in casa dal portone bianco, lo guardò stupita: rosso, gonfio e perennemente gelato. Era caldo nelle stanze vuote, dalla finestra un gracchiare di corvo che fa sì con la testa nera e vola disordinato nel cielo invernale tra gli alberi grissino sul boulevard del centro. Arrivava confuso tra il vuoto rumoroso di pareti senza echi il brillante suonare del piano. La madre di Ninì stava dietro una porta grigia spessa quasi-aperta sul corridoio, una mano lunga e affusolata sul punto di girare la pagina degli spartiti. Il quadro che, appeso accanto all’ingresso, ritraeva la figurina verde sporta sulla balaustra a salutare, ora sorrideva curioso, la lacrima asciugata da una mano dolce e la sinistra agitata contenta, le dita minute, distese, appena appena accennate dalla pittura. Ninì tornava or ora da un pomeriggio a casa di Amelia, avevano cercato di trovare una mappa dietro l’armadio in camera sua e girato in cerchio nel giardinetto cercando di non toccare le linee bianche sul mattonato. Avevano misurato la rabbia del mare in ognuna delle diverse conchiglie di cui faceva collezione l’amica e cantato milleduecentoventotto volte una filastrocca in voga trai banchi di scuola. L’amica e il suo grande cane nero l’avevano accompagnata fino all’ultima svolta prima di casa sua. Il pomeriggio era percorso da un sibilo di aria fredda e invernale che saziava le narici con il fiato bianco delle nuvole. La natura ritirava i suoi rami, coperti con le ultime foglie i quadrati di erba lungo le vie, si scrolla di dosso la neve finita tra le fronde spruzzandola sul terreno a guisa di doppia trapunta. Intasca una dura freddezza: i fumi bianchi lucenti, gli sbuffi dalle labbra dei passanti, i colori delle sciarpe o delle giacche. Ninì ora aspettava domani. Scrisse le sue brave frasi per la scuola e una fila di numeri per esercitare la mano al conto, poi posò la penna e scrisse nell’aria tanti sogni, delle storie di messaggeri fedeli che annunciano rapimenti di fanciulle stregate o la disfatta militare di un re giovane salvato da un falco magico. L’indomani Amelia sarebbe sempre tornata. Ne era certa perché lei e Amelia, un giorno che la luna splendeva ancora a mezzogiorno, l’avevano promesso, sotto l’albero del fiore d’angelo che cresce nell’angolo più remoto del giardino di scuola. Sulle finestre della loro aula si intestardivano i passerotti. Dei disegni di farfalle grandi le spaventavano e svolacchiavano lontano come saltellando. Ninì si addormenta sul letto in ferro, la stanza buia, nessuna luce dalla finestra; sogna. Da quando aveva incontrato Amelia, dal primissimo giorno di scuola primaria, Ninì non sognava più come era solita fare, una fantasia che sembrava un continuo del giorno appena finito, un insieme di sensazioni molto precise e riconoscibili mentre giocava e inventava storie allo stesso modo in cui le inventava da sveglia. Ora dormiva brontolando dolce per tutte le ore di buio e solo all’alba si coloravano le sue palpebre di molti ricordi passati e presenti e le sembrava che i suoi giochi e pensieri li stesse raccontando a una bambina dietro di sé, invisibile, una testolina grigia sfumata che avvicina l’orecchio alla sua bocca e si fa dire sottovoce oppure spia un poco distante e la rassicura con il suo sguardo pallido perché Ninì capiva da certi indizi che è la sua amica Amelia. Udiva il rumore della neve che cade e le grida dei suoi compagni a scuola; il naso le suggeriva l’odore di polvere e matite colorate e il profumo alla vaniglia della maestra. Ma erano svaniti e sfuggiti l’odore di muschio e di caffè macinato. Camilla intendeva rimanere fino alla fine dell’anno nella casa materna per aiutare le sue sorelle e i parenti più prossimi e ricordarsi di sua madre nei luoghi dove aveva trascorso la giovinezza. Anche il papà di Ninì era andato, per molti mesi, più a Nord in un appartamento accanto al cantiere che non fosse così scomodo per lavorare. Alle volte nei suoi sogni entrava il pianoforte, forse perché, quando ancora dormiva, la mamma già suonava intenta il piano sotto le scale o forse solo perché se lo ricordava. Ninì voleva imparare a suonare ma le mettevano soggezione le gambe dello strumento che somigliavano agli artigli di leone a riposo, le carte sul leggio con scritture troppo fitte e nere. Dunque si avvicinava timida e faceva scivolare un dito su tutte le note o spingeva l’unghia nella linea bianca in mezzo a due tasti neri. Nel suo letto in ferro stringe a sé la bambola con la bocca storta. Un’ancora nel mare scivolosa, che le onde sbatacchiano in qua e là, affogando chi ci si aggrappa. Ninì nella notte abbraccia fortissimo la pelle bianca e il vestito di una bambola con la bocca deformata, storta e pendente. Il filo di lana tirato troppo a sinistra, dal giorno in cui era morta la madre di Camilla e lei aveva pianto e Ninì aveva scoperto un segreto che pensava fosse solo per i quadri. Amelia fu felice di battere Ninì nella sfida dei secchielli. Era agile e sicura, una bambina magra dalla pelle scura e i capelli ripiegati in mille riccioli che ricordano delle rondini piroettanti nel cielo. La sfida dei secchielli, disposti in fila fino al cancello, consisteva nel camminarci sopra senza guardare in basso e poi, arrivati, voltarsi indietro e ritornare al portone di ingresso saltellando a piè pari su ognuno non prima di averli allontanati di qualche altro centimetro l’uno dall’altro. Lo zio di Amelia entra dal cancello e la riporta a casa, ha delle ombre sotto gli occhi e i vestiti come ricoperti di polvere, i suoi giochi si sono incontrati, compressi e concentrati soppressi nel guardare il computer vecchio grigio nella sua stanza. Lavora per mandare curriculum. Richiude il cancello dietro di sé, le scarpe sotto le gambe troppo lunghe sorridendo e Amelia scuote la mano e i capelli. La luna diventò grande e riscomparve dimagrita una volta. Da una macchina ruggine, con una sciarpa viola, illuminata-oscurata dal tramonto, Camilla ritornò la sera dell’antivigilia. Il viso sorridente che un po’ più slavato aveva perso una speciale fossetta vicino il labbro inferiore a sinistra. Una macchia più regolare tra le nuvole poteva essere la luna, o il dischetto di luce attorno a un lampione molto alto in cielo e invisibile. Muschio. Shampoo di muschio verde. Ninì fantasticava meravigliose giornate da bisbigliare all’Amelia dei sogni e mostrare baldanzosa all’Amelia del giorno. Forse lei amerà il profumo di muschio di quella chioma rossa.

Autore

Anita Elsa Carosi

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